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Venerdì, 22 Novembre 2024
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Carmiano è nata e cresciuta come una comunità povera e raccogliticcia, ibridata da fenomeni migratori costanti e da forestieri che hanno trovato sempre accoglienza per la convenienza dei padroni del feudo, I padri Celestini di Santa Croce di Lecce, ma anche per ragioni umanitarie in quanto un paese abitato da poveri non ha mai rifiutato di dividere (e condividere) quel poco che aveva con altri delle stesse condizioni sociali. Nel corso della sua storia plurisecolare Carmiano non ha conosciuto il formarsi di una schiera di ricchi, di famiglie cioè che hanno vissuto permanentemente di rendita perché dotate di consistenti patrimoni immobiliari, ma solo di famiglie che si sono riscattate con il duro lavoro quotidiano per assicurare i loro bisogni primari, per poter insomma sopravvivere alla miseria. Alcune di queste famiglie, una minoranza, riescono a raggiungere una relativa agiatezza economica con l’acquisizione di piccoli appezzamenti di terra, che le distinguono solo formalmente dalla stragrande maggioranza delle famiglie nullatenenti, ma con ricadute sociali di poco conto se le differenze si annullano di fronte alle congiunture negative che segnano frequentemente le stagioni agrarie. In quelle drammatiche occasioni le famiglie si scoprono tutte povere. I nuclei domestici però che ambiscono a civilizzarsi scelgono quasi sempre la strada del sacerdozio, una via che consente una minimale elevazione culturale e nello stesso tempo un facile accesso all’esenzione fiscale. Almeno fino alle riforme avviate nel periodo dell’Illuminismo quando i beni della chiesa per la prima volta vengono assoggettati, sia pure parzialmente, alla tassazione.
Dentro questo quadro di riferimento parlare di distribuzione della ricchezza a Carmiano appare un ossimoro, un discorso cioè senza senso. Nei vari censimenti fiscali che si ripetono dal XVI secolo in poi si assiste a richieste di esenzione persino del testatico (la tassa obbligatoria sul capofamiglia) per la dilagante miseria che soffre la popolazione. La presenza di tante famiglie indigenti spinge il governo spagnolo a rinunciare ad esercitare l’imposizione fiscale diretta e a rivalersi con quella indiretta attraverso l’inasprimento delle gabelle sui beni di prima necessità, tra cui il sale e i prodotti alimentari. In una comunità in cui predomina un’economia autarchica, come quella carmianese, lo scambio in natura si rivela meno pesante e comunque più alla portata delle effettive risorse materiali disponibili, in una realtà arcaica in cui si sconta una circolazione quasi inesistente della moneta corrente. Quello che serve per assicurare la sopravvivenza dell’intera popolazione viene dalle provviste dei raccolti agricoli annuali e dalla loro diversa accumulazione. Il baratto diventa l’unico strumento di riserva per l’approvvigionamento alimentare, un’espediente nel lungo periodo ben collaudato per far “sbarcare il lunario” ai più, alle famiglie povere e a quelle meno povere. Per questa ragione la terra resta l’unica vera ricchezza possibile, il possesso a cui tendere in via prioritaria, quello che mette parzialmente al riparo dalle cicliche emergenze epidemiche con annesse carestie, in quanto considerata la risorsa produttiva irrinunciabile, la sola che può sorreggere a lungo l’intera vita comunitaria.
Ancora a metà del XVIII secolo dentro una struttura socio-professionale bloccata a Carmiano emerge una larga schiera di piccoli proprietari che sembrano aver raggiunto l’obiettivo tanto agognato del possesso fondiario. Nel censimento fiscale del 1748 vengono riportati 194 fuochi (famiglie soggette a tassazione) formate prevalentemente da addetti all’agricoltura, pari a circa il 62%, mentre gli artigiani qualificati come tali risultano meno del 10%, i merciari quasi il 6%, i professionisti appena il 5%, i vedovi, le vedove e le vergini in capillis (nubili) insieme si avvicinano al 18% del totale. La maggioranza dei fuochi censiti dichiara il possesso di piccoli fazzoletti di terra che coltivano in proprio. Un dato certamente significativo che non deve però trarre in inganno, in quanto in non pochi casi tale possesso risulta irrilevante ai fini del miglioramento delle condizioni materiali delle famiglie. Messi da parte i 50 fuochi (il 26% dei censiti) che dichiarano di essere in possesso solo delle loro braccia (cioè di essere nullatenenti), gli altri risultano proprietari di appezzamenti di terra di dimensioni insignificanti che non possono da soli assicurare una piena autonomia alimentare all’azienda domestica se i membri della famiglia sono costretti a lavorare “a giornata” su terreni altrui. Qualche dato rende meglio la situazione. Dei 136 fuochi di proprietari 49 sono detentori di due-tre stoppelli di terra (uno stoppello equivale a 8 are, un tomolo è formato da  8 stoppelli), altri 39 fuochi dichiarano mediamente 7-8 stoppelli, altri 30 superano di poco i 10 stoppelli, solo 18 fuochi vantano il possesso di beni fondiari che oscillano dai 21 a 50 stoppelli.
Le eccezioni, in buona sostanza, si riducono però a pochi casi, coinvolgendo appena 6 fuochi la cui proprietà si attesta tra i 51 e i 100 stoppelli, a cui si aggiungono altri 2 fuochi che si distinguono su tutti possessori di una proprietà agraria che supera di poco i 100 stoppelli. In base a calcoli oggettivi oltre la metà dei piccoli proprietari destinano i loro fazzoletti di terra all’autoconsumo senza tuttavia soddisfarlo pienamente e permanentemente; un obiettivo quest’ultimo più alla portata dei 18 fuochi detentori di oltre 20 stoppelli, ma non sempre raggiungibile senza la disponibilità di altre entrate. Non è un caso se tra questi possessori si ritrovano 6 bracciali che vivono anche “a giornata”, un vaticale, un maestro muratore, un molinaro, un maestro legnaiuolo, un barbiere, un merciaro, un dottore fisico, un chierico, ecc. che considerano la terra un bene-rifugio potendo contare su altre risorse economiche provenienti dalla loro quotidiana attività professionale. Tra i 6 fuochi che denunciano una proprietà fondiaria superiore ai 50 stoppelli vi sono 2 bracciali, un chierico coniugato, un negoziante, un civile “vivente del suo” e un nobile assente che vive a Lecce, mentre i due fuochi che vantano il possesso di oltre 100 stoppelli sono esponenti del ceto dei civili. 
La ricchezza del paese va quindi ricercata in antico regime in una proprietà agraria frantumata che non prospetta alcuna mobilità sociale, pur dentro potenzialità economiche diversificate. Anche all’interno della categoria socio-professionale dei bracciali si rintraccia una casistica del possesso non appiattita nelle dimensioni fondiarie, ma proiettata unicamente verso la monocoltura. Sia il piccolo possidente sia il meno piccolo coltivano i loro fazzoletti di terra prevalentemente a seminativo con poche eccezioni. Si segue una regola condivisa da tutta la comunità: per soddisfare le esigenze alimentari quotidiane prima di tutto non deve mancare il pane e poi, se trova posto, anche l’olio e il vino.  Per questa ragione il seminativo resta la coltura predominante. Diventa persino invasiva nei fondi di oliveto, segno appunto della necessità inderogabile di garantire il fabbisogno di cereali necessario al sostentamento della propria famiglia. Il lavoro dei campi non riguarda solo gli addetti all’agricoltura, quelli appunto classificati come bracciali, ma tutti i ceti professionali, artigiani e merciari compresi, che alternano il loro mestiere con quello proprio del contadino. Carmiano in antico regime è un paese di contadini, strutturato sullo sfruttamento intensivo della risorsa agraria che coinvolge tutta la comunità, senza distinzione cetuale e professionale. Un paese insomma, come tanti altri del Salento, che esprime nel possesso della terra l’unica ricchezza possibile, quella che consente di sopravvivere alla diffusa miseria.                    
 
Mario Spedicato
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In occasione dei solenni festeggiamenti in onore di San Giovanni Battista, siamo lieti di pubblicare la descrizione dell’intervento di recupero dell’affresco che ritrae il Santo bambino, eseguito dal restauratore Gianni Liaci all’interno dell’antica chiesa dell’Immacolata a Carmiano. San Giovanni Battista è l’unico per il quale la religione cattolica celebra la nascita, onore riservato solo alla Beata vergine Maria e a Gesù Cristo.

 L’affresco, rinvenuto sul muro perimetrale dell’attigua cappella, occupa la parete di fondo della nicchia che accoglie una vasca in pietra leccese, scolpita sul fronte; il dipinto è presumibilmente databile intorno a fine ‘600, anni in cui si realizzano gli altri affreschi presenti nella sacrestia. San Giovanni è raffigurato come un bambino riccio seduto a terra su uno sfondo agreste, con una croce composta di canne incrociate da cui pende il cartiglio che riporta le parole ”ECCE AGNUS DEI” che ebbe a pronunciare vedendo Gesù al Giordano come narrato nei Vangeli; veste una pelle di cammello molto semplice per indicare la povertà e l'umiltà del Santo nel deserto ed un mantello rosso, segno del martirio. Con la mano indica l’Agnello al suo fianco, principale attributo iconografico ed un evidente riferimento alle parole del cartiglio oltre ad indicare la purezza del battista.

Descrizione della vasca: La vasca, collocata all’interno della nicchia, è scolpita in un unico blocco di pietra leccese. Sul fronte è scolpita una testa alata dalla cui bocca esce una cannula di rame collegata al contenitore sovrastante anch’esso in rame contenuto nel vano scavato.

Stato di conservazione: Al momento della scoperta non si avevano notizie alcune sulla presenza dell’affresco, era infatti coperto da diversi strati di scialbo e la nicchia nascosta altresì da un rivestimento in plastica. Un’ispezione conoscitiva dello stato di conservazione delle superfici, che presentavano solo una decorazione a finto marmo sull’intradosso, ha fatto sì di scoprire l’affresco celato sotto gli scialbi che nel tempo già si erano staccati naturalmente dalla superficie pittorica. Leggere sollecitazioni con l’ausilio del bisturi hanno fatto cadere lo scialbo sollevato e portato alla luce l’affresco.

L’affresco: Si presentava in ottimo stato di conservazione, il supporto ben adeso alla struttura muraria, non presentava distacchi né lesioni. Non si notavano tracce di umidità di risalita e di sali solubili né presenza di muffe. La superficie pittorica appariva impolverata e presentava su diverse zone e in particolar modo ai bordi tracce di concrezioni carbonatate e scialbo più tenace che ne deturpava la lettura unitaria. Il colore si era ben conservato, non presentava cadute o lacune.

La vasca: L’intera superficie della vasca, soprattutto il fronte scolpito, era coperta da diversi strati di scialbo ed uno spesso strato di vernice grigia ricopriva anche il contenitore di rame che all’interno era invece fortemente ossidato.

Intervento di restauro sull’affresco. In sede di restauro, ed a seguito di un più attento esame delle opere, ogni operazione e metodologie d’intervento ed i materiali da utilizzare sono state puntualizzate e concordate con la Direzione dei Lavori (Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Lecce Brindisi e Taranto). Dato il buono stato di conservazione è stato sufficiente eseguire un’accurata pulitura meccanica (con bisturi) di tutta la superficie con la rimozione degli strati d'intonaco e di scialbo più tenaci. Non è stato necessario per ciò intervenire con una pulitura chimica con solventi idonei, se non a dei semplici lavaggi con acqua demineralizzata per eliminare i residui di polvere e scialbo. Una serie di micro stuccature delle pochissime lacune con polvere di pietra leccese, calce e sabbia hanno preparato la superficie al ritocco pittorico con colori ad acquerello per riequilibrare cromaticamente l'insieme e permettere una migliore lettura dell’opera.

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